Voci della città raccolte in versi di poesia
Mi piace pensare alla città – in particolare a Firenze, la mia città - come ad un palcoscenico, luogo di incontro fra gli attori di ieri e di oggi, nella parte murata e nel paesaggio di colline. Mi avvicino in punta di piedi ai segni della storia recente e lontana, con il taccuino in mano, per ascoltarne le voci e fissarle in versi di poesia, a cominciare dalle vicine colline:
Leggeri i passi salgono la collina
la città si scioglie in sentieri solitari,
i cancelli muti parlano di storie lontane.
Nel centro cittadino il primo incontro è con le piazze, dall’antico selciato:
Attraverso le piazze
ricerco pagine di storia,
immagini della vita,
l’idea della bellezza.
Le forme delle piazze sono uniche e ogni volta che le attraverso, scopro qualcosa di nuovo insieme a scene di vita, a voci stonate in un paesaggio umano in forte cambiamento.
Di questo paesaggio in trasformazione la poesia ne può, anzi direi, ne deve parlare. Come sappiamo il linguaggio della poesia è qualcosa di speciale, coglie, di solito, l’aspetto essenziale, autentico, delle cose, con l’aiuto di tutti i nostri sensi. Ha la capacità di arricchire lo sguardo di tutti noi, di guardare nel profondo, di stabilire relazioni insolite fra persone, fra i fatti di ieri e quelli di oggi:
Sulla strada di casa attraverso
la sera piazza dell’Annunziata
Novanta passi è lunga la piazza…
Sotto la loggia dei Serviti lunga
la fila dei poveri per la minestra,
giovani fumano pensosi.
Nell’ombra corpi stesi
fra coperte, nel cassonetto
la donna cerca cose dal fondo.
Sullo sfondo dei luoghi classici del Rinascimento fiorentino sorprende, a volte, la presenza come ferite, di scene di miseria, di degrado. Sul taccuino che porto con me ho fissato la figura di giovani immigrati che vivono di notte, in maniera precaria sotto un ponte, poi, al mattino, con abiti da festa vanno alla conquista della città; l’immagine sullo sfondo di una chiesa rinascimentale, di un vecchio barbone che zoppicando trascina un carrello con le sue cose; i tratti di una vecchia compagna dei banchi di scuola che vive ai margini della città, alla stazione.
Le mani che battono ai vetri della nostra automobile, sono il segno più forte del dolore, delle richieste d’aiuto che attraversano la città, che giungono da molte parti del mondo:
Mani piccole
mani nere
mani bianche
mani ferite
battono ai vetri
della macchina…
Mani
fioriscono
nella città, mostrano
i dolori del mondo.
Intorno alla stazione si svolge una battaglia particolare, fra i tutori dell’ordine e i nuovi arrivati:
E’ arrivato dai paesi dell’est
lo stormo di uccelli migratori,
la notte dormono in stazione
all’alba raccolgono gli averi,
nascondono i cenci fra i rami
in mezzo ai nidi dei piccioni,
sopra i chioschi delle aranciate.
Uccelli vestiti da spazzino
afferrano i sacchi al mattino.
La sera si cerca un altro riparo
ai nidi delle rondini più vicino.
Credo che ci possa essere un preciso spazio nella città per la voce della poesia civile, di denuncia, di richiamo a principi fondanti di solidarietà, di accoglienza, per contribuire a superare stati di paura e di sconforto. Si vede, d’altra parte, che il potere è in grado di trovare risposte “facili” nei confronti di persone deboli, forte del consenso dei cittadini più in vista della città, in una società spesso afona, senza voce:
Il corteo dei magi lascia
l’affresco della Cappella,
discende le scale, appare
in vesti sontuose nella via,
sulle cavalcature i sovrani
della città, della provincia,
il grasso sceriffo: portano
in dono la stizza, il genio
fiorentino, l’arroganza.
Li circondano cittadini,
il capo dei tassisti,
i mercanti più ricchi,
i giocatori del calcio in costume,
cinque famosi cuochi.
Nel paesaggio di colline
angeli alti in volo, gruppi
di pastori, lavavetri
le braccia incrociate.
Nelle mie passeggiate serali, mi attrae l’aria che prendono i palazzi del potere nelle ultime ore di lavoro della giornata, cammino lungo le loro mura, cerco di immaginare, per così dire, il volto del potere, superando le barriere di incomunicabilità che oggi si avvertono. E’ un gioco che mi è capitato di riprendere davanti al Tribunale di Milano:
Buona notte,
Tribunale di Milano.
Duecento passi è lungo
il tuo fianco, sessanta
braccia l’altezza
di scale e colonne
vetrate e marmi verdi,
greve cubo di bruttezza
nato da un folle amore:
Piacentini e il fascismo.
Nella notte d’estate
due finestre illuminate,
occhi insonni al lavoro,
sassolini nella scarpa
onnipotente del Premier.
Buon lavoro,
Tribunale di Milano.
Può essere di conforto avere a portata di mano, con il mio taccuino, i colori della memoria. Senza memoria si vive in un presente indistinto nel quale prevale la paura dell’altro, emerge facilmente il sonno della ragione. Credo che per il discorso poetico sia naturale stabilire una stretta relazione fra ieri e oggi, fra le nostre radici – spesso di emigrazione e di miseria - e le speranze di oggi. Rovistando fra gli arnesi della memoria salta fuori il ricordo della “classe operaia” e pare un bel gioco – o è una cosa seria? – contrapporlo al mondo delle Giubbe Rosse di Firenze, “tempio sacro” della poesia:
Il salotto buono di Firenze
appare in bianco e nero,
i colori delle storie di Vasco:
le tute blu arrivano da Rifredi
la polizia è schierata, sbuca
dai portici la camionetta,
picchiano forte i manganelli,
si grida in coro pane e lavoro.
Le Giubbe Rosse sono sbarrate,
i poeti scomparsi.
La musica è delle sirene,
i versi le urla degli operai.
La città rimane oggi luogo di scontri, anche feroci, alimentati da una paura diffusa del diverso, dell’emarginato, giunto da paesi e da culture lontane. Pochi passi per il centro di Milano, ad esempio, fanno cogliere questo clima di paura:
Milano è una signora
accaldata nell’afa d’estate,
si specchia
nell’acqua dei navigli,
nelle vetrine di San Babila,
elegante il vestito.
Il tassista pieno d’orgoglio:
“Ormai facciamo da soli,
i rom stanno al suo posto.”
All’uscita della stazione:
il manifesto lancia l’appello
per le ronde padane,
giovani gridano:
“Ronde operaie per fermare
le stragi nei cantieri ”.
Mi accorgo che molte pagine presentano i toni grigi dell’epoca che stiamo vivendo. E’ naturale ricercare le ragioni della speranza, dell’amore, nutrimento primo della poesia. Mi limito per questo a riascoltare le voci delle migliaia di giovani che sei anni or sono invasero i viali di Firenze in occasione del Social Forum. L’immagine della speranza prende la forma di un ponte fra i nostri giorni e il domani:
Dieci novembre, duemila e due.
Le piazze del centro
respirano aria di paura,
alle vetrine barriere per scudo,
sul cartello: “chiuso per lusso”.
La polizia è in assetto di guerra,
gracidano stridule le radio.
L’anello dei viali
ride dell’allegria dei giovani
giunti dagli angoli del mondo
per dipingere il sogno della pace.
Chiudendo il quaderno di appunti su alcune delle voci che animano la vita di Firenze, mi accorgo ancora una volta che il filo che tiene uniti molti fogli fra loro è l’allegria contagiosa dei bambini, quello che vediamo nei loro sguardi innocenti:
Scivola la bicicletta,
attraversa le piazze,
Marta è sul sellino davanti,
il casco rosa,
cantiamo forte
e voialtri bersaglieri.
Ad ogni strofa suona
la tromba, facciamo
un’orchestra volante,
la gente guarda,
ride, scuote la testa.
Mi sembra che le ruote
si stacchino da terra,
si alzino in alto, è tutto vero
o siamo nel sogno?
Per mille versi vorremmo cantare il senso, la gioia che ci trasmettono, vorremmo che il suono delle loro risa, dei loro giochi fosse sempre più al centro della vita delle città.
(Roberto Mosi)
“Comprendere cosa significa l’atroce,
non negarne l’esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà.”
Hannah Arendt, citaz.
di R. Saviano, Gomorra
Per me si va nella città dolente,
per me si va nell’eterno dolore,
per me si va tra la perduta gente
Dante Alighieri
Per Roberto Saviano
A trecento chilometri corre
il treno per Napoli
poi l’incontro da “Mimì
alla Ferrovia”, i miei amici.
Sulla tovaglia tracce rosse
di vino, la città di Gomorra
balza evidente: nove cerchi,
l’Inferno napoletano.
Al centro il Porto, intorno
le terre da Scampia
a Secondigliano, Forcella Casal
di Principe, Torre Annunziata.
Per le pareti l’affresco:
il sogno, il dominio della
Camorra, la droga,
le montagne dei rifiuti.
“La gente sono vermi,
rimangono vermi, sempre”,
la voce della Camorra.
Il caffè tinge la tovaglia
di nero: ecco l’Acheronte
stipato di dannati: “lasciate
ogni speranza, voi ch’entrate”.
(Roberto Mosi)